Scritti di Pietro Golia

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Scritti di Pietro Golia

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Il primo vero grande processo di disintegrazione politico, identitario e culturale si è verificato proprio nel Regno delle Due Sicilie, all’indomani della conquista piemontese del 1860-1861.
La progressiva desertificazione della identità e della cultura del Sud fu attuata seguendo una strategia di egemonia culturale di derivazione giacobina e liberale.
Nel Sud si fece tabula rasa della memoria storica di un Regno che per secoli aveva conservato una sua unità strutturale. Nonostante che permanesse anche la memoria di Federico II che ribadiva una statualità grande e profonda, i principi di uno sviluppo autoctono e di un rapporto di grande autonomia persino nei confronti della Chiesa, fino a giungere ad uno scontro epocale.
Non poteva essere evitato un conflitto aperto tra una nazione come quella del Sud e una nazione che nasceva dal disegno politico-intellettuale di una minoranza che voleva un grande Piemonte, sostenuto da Francia e Inghilterra e dalla Massoneria internazionale. C’erano principalmente gli influssi giacobini e del protestantesimo che avevano seminato ed insistito nella negazione di quelle tradizioni, di quelle saggezze tradizionali che il popolo meridionale riteneva fondamentali della sua stessa identità e che quindi si tramandavano di generazione in generazione. Bisognava, quindi, negare consuetudini, conoscenze, modi di essere, religiosità comuni a tutto il popolo.
Essenziale in questo processo di negazione e di disintegrazione era una sorta di rivoluzione pedagogica che nasceva da una “rieducazione” delle masse e da una loro formazione che doveva spezzare ogni legame con le tradizioni popolari. Bisognava vanificare ogni collante nell’ambito della comunità meridionale. Seminare individualismo, relativismo, nichilismo, opportunismo, materialismo e disperazione. Bisognava far dilagare miseria e ragion conveniente.
Alla grande guerra civile sarebbe dovuta seguire la guerra civile molecolare. Dopo, gli stranieri, tutti gli stranieri, avrebbero avuto buon gioco. I modelli dell’invasore, dello straniero, sono stati sempre quelli oscillanti tra il neogiacobinismo e il moderatismo liberale, il comitato d’affari e la speculazione.
La stessa leva obbligatoria di lunga durata e l’avversione alla civiltà contadina nascono proprio da questo approccio culturale e pedagogico. E quindi nasce in questo contesto il progressivo sradicamento delle preesistenze comunitarie e quindi della stessa religiosità dei popoli, non solo di quello meridionale.
Viene meno non solo il rispetto per la terra, ma anche per la natura, per l’uomo, per il creato. Tutto si deve sottomettere ed essere strumento di speculazione, di usura. La deforestazione e i guasti idrogeologici, la destrutturazione del paesaggio e gli organismi geneticamente modificati: i risultati sono sotto gli occhi di tutti. La napoletanità, il pensiero meridiano erano cultura, anima, arte, musica, pathos, solidarietà, cultura del dono e comunitarismo. Persino trasgressione e discontinuità nella festa.
Questo processo di disgregazione e di annichilimento che investì il Regno delle Due Sicilie si è spostato a tutto il sistema Italia e all’Europa tutta. Si parte dalla negazione della cultura, della storia, dalla omologazione dei saperi, dal degrado e dal relativismo della stessa Chiesa, dalla distruzione delle consuetudini alimentari e di ogni specificità anche delle colture, della coltivazione della terra, fino ad un vero e proprio lavaggio del carattere delle masse con l’ideologia pubblicitaria e consumista. Siamo alla sparizione della sovranità politica, economica, monetaria, agroalimentare, linguistica. Pensiero unico ed uniformato, mercato unico, lingua unica, religiosità fai-da-te, banale e relativistica.
La tecnocrazia della dittatura dell’Alta Finanza, dei banchieri e delle burocrazie dell’Europa, il potere giacobino e senza volto non stanno riuscendo ad avere ragione delle resistenze popolari che si stanno alimentando, trasversalmente, un po’ ovunque.
«Nei primi anni Sessanta – scriveva Pierpaolo Pasolini – a causa dell’inquinamento dell’aria e, soprattutto in Campania (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti), sono cominciate a scomparire le lucciole. Il fenomeno è stato fulmineo e folgorante. Dopo pochi anni le lucciole non c’erano più. Sono ora un ricordo abbastanza straziante del passato».
Quel tipo di deriva ambientale e antropologica che Pasolini intuiva è stata accentuata e ha subìto una accelerazione devastante negli ultimi decenni. Un avvelenamento, una mutazione decisiva.
Specie nel Nostro Sud, sotto l’incalzare del processo di normalizzazione e dell’ideologia del dio quattrino, si stanno formando moltitudini di omuncoli degenerate, ridicole, mostruose, criminali. Basta soltanto uscire per strada per capirlo.
Quasi tutti fanno l’impossibile per annientare quella tribù napoletana, irripetibile, irriducibile ed incorruttibile. Non ci riusciranno. La diritta via è segnata ancora una volta da Cultura, Coraggio, Virtute e Conoscenza. Queste sono le prime risorse per risalire la china. C’è sempre da preferire un manto di lucciole, una natura incontaminata a una Montedison, a un’Italsider, a un Petrolchimico, a una Terra dei Fuochi con scorie radioattive e tossiche…

Pietro Golia

L’americanizzazione politica segue necessariamente l’americanizzazione culturale. Il linguaggio, la musica, il cibo, l’urbanistica, il paesaggio, il modo di vestire, l’atteggiarsi cambiano, si trasformano, si nientificano.
I giovani americani indossano ormai i jeans ovunque, tranne che in chiesa o a letto”. Così un giornale del 1958 raccontava uno degli esempi della cultura universale, più esattamente globale, i pantaloni, che hanno cambiato la storia del costume negli Stati Uniti, nell’Occidente, nel mondo. Un simbolo, dunque; un nuovo aspetto del sogno americano.
Ma Tacito ammonisce: “Ammirare il loro modo di vestire, di vivere o di parlare, dimenticando il nostro: pensando che quella era la civiltà, mentre era solo un’astuzia per dominarci”.
Non lasciarsi andare, non disgregarsi, non sbrindellarsi: perché un popolo che si abbandona è un paese che si perde, è una memoria che ancora oggi viene calpestata tra mille inconsapevolezze. Il Sud non ha alcuna ragione per abbandonarsi al vittimismo dei torti subiti, delle violenze inaudite che hanno prodotto ferite ancora non rimarginate, dei saccheggi e del processo di colonizzazione che devasta il territorio e impoverisce il popolo.
Occorre, oggi, misurarsi con la fatalità dei rischi e dei pericoli. Contare di farcela basandosi sulle proprie forze. Noi non possiamo avere uno sguardo pessimista. Può essere un discorso contraddittorio prendere coscienza del declino: potrebbe significare, come per molti, accade, che si vive il declino. Ma è più grave se c’è il declino, se si subisce l’invasione dei modelli culturali, economici e noi non ne parliamo. La clientela politica, quella dei partiti, subisce la guerra delle immagini, dei nomi, dei figuri che si sono impossessati delle leve del potere e delle leggi elettorali al punto che si rischia la dittatura: ma la legge ferrea delle oligarchie dominanti e cooptanti (il banale, la mediocrità) è qualcosa di peggio.
Qualcuno rimpiange il tempo in cui c’erano i canti di protesta che non erano mai politici; si chiedeva, si reclamava il diritto di avere i capelli lunghi, di fumare lo spinello e di non ubbidire ai genitori e s’invocava la pace mentre i trafficanti d’armi e i fabbricanti di moneta (le banche private) scatenavano guerre e logiche di dominio, si dividevano il mondo e s’impadronivano delle risorse e delle ricchezze delle nazioni e dei popoli.
Si registra, a questo punto, la scomparsa della becera retorica.
La clientela della politica politicante, gli elettori sono diventati pubblico, consumatori e spettatori passivi, sicuramente mai esigenti. Il riflusso, tutto è privato, l’individualismo narcisista, la società liquida: ecco la chiesa degli ultimi giorni, la febbre del sabato sera.
Per impegnare i disimpegnati bisogna piangere, commuoversi e divertirsi. Per mobilitarsi occorrono panini e musica rock, coca-cola e marjuana, pane e giochi. Non è più necessario illuminare le masse sulla validità delle idee che, dicono, sono già interiorizzate, mangiate. Questo sistema, questo potere senza popolo, si deve mostrare evoluto, adulto, dunque sereno e moderato. Magari senza domani, disperato, liquido, di corsa. “Distruggete pure il nostro paese, trastullatevi e lasciateci vivere, anzi sopravvivere, campare alla giornata”.
Questo potere senza popolo riposa sulla fine dei conflitti, sul fatto che il sistema della protezione sociale sia sempre più messo in discussione, sullo sviluppo della tentazione autoritaria… che le angosce securitarie aumentino, che la giovinezza disperi dell’avvenire fino a far serpeggiare una mentalità da guerra civile, per il momento, molecolare.
Noi viviamo la fine della partita, sono due squadre che hanno la stessa fame e la stessa fiacchezza: all’occorrenza ruggiscono. Fanno lo stesso piccolo gioco. È l’ideologia della gestione, della procedura, della “legalità” extra legem, il frullato delle idee e l’inversione dei valori.
Le idee, o quel che resta, si sono adattate agli avvenimenti, o meglio all’assenza degli avvenimenti, allo sciopero degli eventi.
Un altro passo in avanti, sempre nella direzione del baratro è l’ideologia techno. È difficile caratterizzare una ideologia o un pensiero tecnocratico: la tecnocrazia si presenta come un’antideologia, come la fine di ogni ideologia. La tecnocrazia è una ideologia del progresso, la sua concezione della storia è un’antistoria, un futuro senza passato. È il caso di riparlarne.

Pietro Golia

I tempi son duri, le idee sono molli. Questa è l’epoca in cui gli uomini sono sempre più rari. È la società liquida, il trionfo della soft-ideologia, il tempo in cui le famiglie politiche, culturali e morali si incontrano, si riuniscono, fanno affari.
Dicono tutti le stesse cose, si comportano allo stesso modo, si equivalgono”. Così dice la saggezza popolare. Questi che volevano, un tempo quando si contrapponevano, cambiare il mondo, il mondo li ha cambiati, omologati. Tutto ciò sembra lontano, inimmaginabile… eppure la vita politica è stata “normalizzata”. I politici sono i camerieri dei banchieri, dell’alta finanza, come diceva Ezra Pound. Mentre Ernst Jünger, nel Trattato del ribelle, sottolinea: “Uno dei caratteri peculiari del nostro tempo è che le scene più significative sono legate ad attori insignificanti… L’aspetto irritante di questo spettacolo è il legame tra la statura modesta e un potere funzionale così enorme”.
L’alternanza, poi, non è sinonimo dell’apocalisse. Tutto regge in attesa dell’implosione, si scivola e ci si avvicina al baratro con indifferenza. La bolla delle illusioni manifesta una pia illusione, che consola l’individuo, tranquillizza mentre si vive di corsa celando le insicurezze, le debolezze, le depressioni. Non è positivo ciò che accade, non è positivo rinunciare alle nostre utopie, ai nostri sogni. Servono legami responsabili: l’amore richiede cura, non consumo.
È la fine delle ideologie? No, ma può essere l’ideologia della fine. La sparizione dell’arte, della politica, della cultura. La propaganda elettorale si è fatta pubblicità. La classe politica non ha da vendere che la sua immagine, sorridente ed ebete. Un unico messaggio: “coltivate il vostro giardino”, il vostro particulare. L’ego-depressione, con i suoi attimi ruggenti, induce a blindarsi nella sfera privata, ove il lavaggio del cervello, del carattere viene prodotto dai nuovi mezzi di comunicazione. Dal reale si passa al virtuale. Il nostro tempo è governato “dall’economia delle esperienze”. Guai a mettere il naso fuori dall’uscio. Bucare la bolla vuol dire far emergere il reale, cercare la verità è una aspirazione di minoranze che si possono trasformare in maggioranze quando vincono la paura, rivendicano una identità, una memoria, si riconoscono in comunità e si avvicinano. Non si può desiderare la calma piatta, non si può rinunciare al proprio destino. Le illusioni dei piccoli uomini, la ragione conveniente porta alla grande paura dei benpensanti. «Si avvicinano i tempi dell’uomo più spregevole, colui che non sa disprezzare se stesso – dice Friedrich Nietzsche – Ecco io vi mostro l’ultimo uomo. “Che cos’è amore? E creazione? E anelito? E stella?” – così domanda l’ultimo uomo, e strizza l’occhio. La terra allora sarà divenuta piccola e su di essa saltellerà l’ultimo uomo, colui che tutto rimpicciolisce».
Accettare le illusioni degli ultimi uomini, come quelle dei mendicanti miliardari, non serve a niente: esalta la loro parte rinunciataria nei confronti della vita, lusinga le loro risposte provvisorie, non li spinge ad interrogarsi: li fa solo inabissare nel tombino della fogna della “iperrealtà” della vita quotidiana.
Non ti salvi al concerto rock o jazz. Nemmeno se ti accompagni, quando hai lo scrupolo, alle dame di carità e ti dai alla beneficenza-spettacolo dei soliti truffatori. Esci dal mercato. E in quanto comunità di vita e di emozione si possa sempre dire: “E quindi uscimmo a riveder le stelle”!

Pietro Golia

Non bisogna fuggire dal proprio passato. Occorre studiarlo, affrontarlo. Le celebrazioni del Centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia? Si consumano e affogano nella retorica patriottarda. Pubblicità stucchevoli, subito abolite: quella di Calzedonia che aveva come colonna sonora un lentissimo “Sorelle d’Italia”, mutuato dall’Inno di Mameli; il Nabucco che celebrava la grande banca che ti usura il conto, ti svuota le tasche e ti svuota la vita, vita digitale, precaria, liquida; e oggi i piccoli tricolori che campeggiano ovunque e fanno incassare una manciata di euro ma anche consistenti finanziamenti, al punto che una maxiretata ha già decapitato i vertici operativi del comitato per le celebrazioni.
Ci si avvia sempre più a vele spiegate verso polemiche, recriminazioni, revisioni. Si trattò di Malaunità. Lo Statuto Albertino, la libertà, la legalità? Gli invasori garibaldini e piemontesi si appoggiarono a mafia e camorra: nasce così il patto scellerato tra politica e malavita, che ancora dura. Garibaldi entra in Napoli senza colpo ferire, senza dover sparare neanche un colpo, senza sacrificio di vite umane, né distruzione di beni materiali. La strada gli è stata spianata da Liborio Romano, che tiene nelle sue mani le leve dell’ordine pubblico e degli interni. Liborio Romano è un ministro del Borbone, di Francesco II. Contemporaneamente è l’uomo di Cavour a Napoli. È un traditore ed ha un suo mondo: massoneria, criminali difesi e assolti e quindi riconoscenti, inglesi, liberali, giacobini e moderati, opportunisti di tutte le risme. L’ordine pubblico lo condivide, lo esercita con la camorra.
All’origine, compromessi vergognosi. Nella storia d’Italia ci sono poche rotture, le continuità e i consociativismi abbondano. I trasformismi stanno rovinando l’Italia, in queste acque sporche e melmose, inquinate e putride. C’è una grande crisi di sfiducia nella propria esistenza che ancora si deve manifestare in crisi economica. La disunione si taglia a fette, né Stato né nazione. Non c’è memoria condivisa. Italiani senza meta. Quello che è più grave. Hanno rubato al Sud il futuro. Secondo Nicola Zitara, la secessione (questa parola che si ha paura sinanche a pronunciarla dalle nostre parti) è già avvenuta: occorre solo prenderne atto. E organizzarsi, nell’autonomia e nella volontà di saper fare da sé.
Del resto, tutte le volte che si parla di unità d’Italia, la realtà effettuale delle cose lascia sempre a desiderare. È sempre stato così. Basta leggere cosa scriveva Giuseppe Prezzolini sulla “Voce” nel 1911, considerazioni che sembrano scritte oggi: «La democrazia presente non contenta più gli animi onesti. Essa non rappresenta ormai che un abbassamento d’ogni limite, per far credere d’aver innalzato gli individui: mentre non si è fatto che l’interesse dei più avidi e più prepotenti. Da per tutto è lo stesso fenomeno. Si veda ad esempio, nel campo degli studi, la minore severità di criteri intellettuali. La severità per il minimo necessario di coerenza e di onestà in politica è pure decresciuta. Nelle elezioni trionfa il danaro, il favore, l’imbroglio: ma non accettare tali mezzi è considerato come ingenuità imperdonabile.
Tutto cade. Ogni ideale svanisce. I partiti non esistono più, ma soltanto gruppetti e clientele. Dal parlamento il triste spettacolo si ripercuote nel paese. Ogni partito è scisso. Tutto si frantuma. Le grandi forze cedono di fronte a uno spappolamento e disgregamento morale di tutti i centri di unione. Oggi uno è a destra, domani lo ritrovi a sinistra, ma questa vecchia scena della politica viene complicata dal fatto che, se indaghi, ci vedi del brutto sotto, ed è più grave perché nessuno ha più sensibilità per accorarsene e criterio per conoscere il valore».
Lo Stato italiano è sparito sotto i colpi dell’alta finanza e delle privatizzazioni. Ernest Renan diceva che la nazione “è una grande solidarietà, costituita dal sentimento dei sacrifici compiuti e da quelli che si è ancora disposti a compiersi insieme. Presuppone un passato, ma si riassume nel presente attraverso un fatto tangibile: il consenso, il desiderio chiaramente espresso di continuare a vivere insieme”. Ma non è possibile addomesticare la ricerca storica. Non è possibile una vacanza della storia. Non è possibile brancolare in un presente senza storia.

Pietro Golia

Il Sud deve rinascere. Le violenze della politica, dell’alta finanza, del gran capitale devono essere sconfitte.
Un modello di sviluppo sbagliato, che si fonda sui grandi monopoli pubblici e privati, su un gigantismo industriale imposto al Sud, come al Nord a partire dagli anni Cinquanta, porta tutti, alla lunga, alla rovina.
Questo sistema violentatore di ogni tipo di specificità ha diffuso a piene mani solo povertà, con la complicità delle classi politiche e dei sindacati corrotti. L’agricoltura, il turismo, la piccola e media impresa, l’artigianato, la pesca sono in ginocchio e rischiano di essere cancellati se i venti della grande crisi incominciano a soffiare. Uno scenario che ha preso forma mentre i sindacati pensavano a tutelare l’arricchimento delle burocrazie e rispondevano solo alla funzione di essere pompieri di eventuali fuochi sociali e cinghia di trasmissione dei partiti politici. E allora è potuto accadere che la sola Fiat, negli ultimi trent’anni, è costata allo Stato un milione di miliardi di lire, vale a dire circa cinquecentomila milioni di euro.
La Federconsorzi di Paolo Bonomi, la Sir di Rovelli, la Montedison di Gardini, l’Ilva, l’Italsider, il Banco Ambrosiano, il Banco di Napoli, trafugato ancora una volta dai piemontesi, il Banco di Sicilia, la Parmalat di Tanzi e la Cirio di Cragnotti: tutti finanziati dai governi asserviti a questi centri di potere economico e finanza virtuale.
Il processo di globalizzazione e di standardizzazione è un disegno contro il mondo rurale e contro l’artigianato, sulla pelle dei popoli. Ottocento milioni di esseri umani non hanno cibo a sufficienza per vivere, mentre la società degli usurai costringe i produttori di alimenti ad abbandonare la terra. L’acqua diventa l’oro blu e le multinazionali cercano di accaparrarsi le sorgenti, comprandole, spesso pure a prezzi irrisori.
L’agricoltura, l’acqua, la terra devono essere sottratte al mercato, alla speculazione per motivi strategici, culturali, economici e sociali. Quando si ha un grande pensiero politico si afferma sempre che “è importante per la nostra Nazione coltivare elementi per sfamare il nostro popolo. Si può immaginare un Paese incapace di produrre cibo sufficiente per la sua gente? Sarebbe una nazione soggetta alla pressione internazionale. Sarebbe una nazione a rischio. Così, quando parliamo di agricoltura, stiamo parlando proprio di una questione legata alla sicurezza nazionale”.
Ecco perché le nuove generazioni si devono radicare principalmente nei territori di nascita, devono ascoltare il richiamo del ritorno alla terra, non al petrolio. È una necessità anche quella di passare ai sistemi alimentari locali, biologici e biodiversi. È il tempo del terreno vivo, sono richiesti semi di libertà, che sono semi di vita. Ritornare alla terra significa ricostruire le comunità alimentari locali, scatenare energie vive, rinnovare il lavoro per una economia profonda ed umana.
La rivincita della campagna e dell’uomo artigiano annulla la tendenza allo spopolamento e alla fuga dei cervelli. C’è da ricostruire un mondo in frantumi, se possibile, con la collaborazione di tutti. È la nuova Canzone della Terra.

Pietro Golia

Resistere, insistere e dire no. In special modo di questi tempi. No all’arroganza di farsi imporre le scelte, anche quelle ormai di poca significanza. No ai poteri finanziari che chiedono, dopo il fallimento della Mistica della Borsa, la ricapitalizzazione delle agenzie di credito per far tornare a rendere i loro debitori meritevoli di credito, affinché il prestare e chiedere in prestito i soldi, dell’indebitarsi e rimanere indebitati, possa continuare.
Ricorda Ezra Pound: “Un popolo che non s’indebita fa rabbia agli usurai”. Ormai esiste un Welfare, uno stato sociale, per i ricchi che devono essere aiutati per i loro sperperi e per la loro avidità. Dagli Stati Uniti è arrivata la notizia che 70 miliardi di dollari, circa il dieci per cento dei sussidi che le autorità federali intendono pompare nel sistema bancario americano, sono già stati usati per versare gratifiche a coloro che hanno portato il sistema sull’orlo della rovina. Accade anche in Inghilterra, anche in Europa. È la globalizzazione che annichilisce, che allinea altre bolle. La vergogna dovrebbe, a questo punto, essere quotata in Borsa: è un elemento importantissimo del profitto.
No all’iperproduttivismo e agli organismi geneticamente modificati che hanno imbastardito ogni sorta di merce che trabocca dagli scaffali dei Grandi Magazzini. No alle privatizzazioni continue e totalizzanti. Ha scritto recentemente Dany Robert Dufour: “Il capitalismo sogna non soltanto di estendere fino ai limiti del pianeta il territorio in cui ogni oggetto è una merce (diritti sull’acqua, sul genoma, sulle specie viventi, sui neonati, sugli organi umani…), ma anche di renderlo più profondo, in modo da farvi rientrare questioni che un tempo erano lasciate alla responsabilità personale (il corpo, la salute, la soggettività, la sessualità…) ma che ormai rientrano tra le merci”.
No alla polizia del pensiero, al meccanismo della persuasione e della manipolazione, che determinano isolamento, disgregazione, consenso apatico e passivo, sottomissione. Nella società della connivenza la comunicazione di potere è mercificata, è il lubrificante generale dei rapporti sociali. La pubblicità è manipolazione, potere, direzione, voce del padrone. Ha la funzione di far interiorizzare a ognuno modelli sociali dominanti. La pubblicità è la cultura del senso comune, veicola una narco-ideologia, una droga dolce per far dimenticare il reale. È l’ideologia della momentanea evasione. E invade tutte le reti di comunicazione che diventano reti di mercificazione, la promessa del paradiso futuro: una necessità ineluttabile, la soddisfazione concreta, per un attimo, delle passioni generali. E l’uomo nuovo non riesce più a conciliarsi con la natura; è contronatura, ne ha smarrito il senso, ha cambiato vita. Le forze vive lasciano il passo ad un corpo sociale artificiale, di plastica, boccheggiante, che però balla. L’immagine di sé è sufficiente, la disintegrazione dei salari interessa poco.
Sentimenti vaghi dell’ideologia minimalista. Demotivazione e disincanto. Persino la politica spettacolo va a puttane e, nella transparenza del male che s’insinua ovunque, afferra la noia, cerca l’ultimo brivido, la scossa, la cocaina, il transessuale. È la transpolitica, senza confini, un verminaio di ozi, frustrazioni e depressioni, banalità e indifferenze. I costruttori di nuovi quartieri alieni e gli agenti delle pompe funebri si fregano le mani, si rallegrano per il terremoto, per la ricostruzione, per i morti e per i funerali. È la decadenza…
È una pseudopolitica che ruba a man bassa. Piccoli e grandi ladri, ovunque. Un mondo di ladri, ecco. La legittimazione ha ceduto il passo a un consenso passivo, a una tolleranza da casa chiusa, buia, ove all’improvviso si accendono le luci.
Una combriccola di lerci individui sospinta dal niente. Che esalta il pensiero senile dei piccoli piaceri, dopo anni di astinenza tossico-sessuale. La demenzialità e l’impotenza dell’uomo economico sono al capolinea. Sguazzano ancora mentre affondano nel pensiero unico e uniformato, con la speranza che “tutti i popoli della terra entreranno insieme nel modello unico di civilizzazione”. La vacanza dalla storia può finire da un momento all’altro. Quando ci saranno le fratture, intrattenitori, formatori e tutori non serviranno. È la lezione di altre epoche e di regioni che si risvegliano già oggi. Dopo il nichilismo, che cosa s’intravede? Gli appelli dell’autodisciplina per mobilitare non mancano. È certo che la natura ha orrore del vuoto e che la ricreazione è finita.

Pietro Golia

“Mi lamento, dunque sono”. Ecco il nemico principale del Sud. Dal vittimismo nasce l’arretratezza meridionale. Dalla colonizzazione del Nord, quando fecero più grande il Piemonte, dall’assedio delle multinazionali e dalla imposizione del modello culturale della ragion conveniente, mercantile ed economicista, che ormai ha perso mordente e si trova sotto le dure repliche della storia.
Niente lagna, occorre rompere l’assedio, andare avanti, determinare il primato del fare, fare sforzi e sacrifici. “La debolezza è il più grande dei peccati – dice Swami Vivekananda –. Non aggiungere la tua debolezza al male che viene. Sii forte!”
In questa fase occorre possedere una volontà che sappia prevalere su tutti i determinismi, che sappia fronteggiare le seduzioni di un potere che sembra essere inscalfibile e invece è prossimo all’agonia. È un lento inabissarsi nella banalità, nell’ossessione della miseria e nella sazietà, nella depressione, nell’inseguimento di ogni possibile desiderio, nella comunicazione a tutti i costi con il mondo, di alienati blindati in casa: relazioni digitali. La vita digitale si accompagna allo scenario di una crisi catastrofica senza precedenti. La nuova economia è risultata essere una bolla che segna l’esplosione-implosione di un sistema che affonda dopo essersi sfracellato sugli scogli dell’economia reale.
Il turbocapitalismo della globalizzazione ha con il biocapitalismo costruito la forma più avanzata di evoluzione-involuzione del modello economico: lo sfruttamento integrale dei corpi, dei cervelli, delle emozioni. È il canto del cigno del liberismo-nichilismo-laicismo. Il corpo diventa la merce finale, gli organi pezzi di ricambio da espiantare, da depredare, da trapiantare. Non devono esistere i due misteri della vita, l’inizio e la fine, tutto si deve controllare, artificialmente, scientificamente manipolare. Si alza il tiro con l’eutanasia, con i libertinaggi, i vizi, le oscenità, le pedofilie, anche pubblicitarie, in un intreccio di contaminazioni, malattie e contagio per AIDS mentali, culturali di forme indistinte.
È angosciante la società liquida. Per Ernst Jünger “al freddo chiarore della ragione, tutto diventa calcolo, disprezzabile e spento. Ma ci è stato dato di vivere nei barlumi dei grandi sentimenti: questo resterà il nostro inestimabile privilegio”. Non tutto si secolarizza. Si va alla ricerca di punti fermi. C’è un recupero identitario prodigioso in tutti gli Stati. Perché le identità sono appartenenza, legami, lingue dell’anima, religioni, storie. I popoli non vogliono più smarrirsi nei non-luoghi. Il bisogno di comunità riemerge nella società liquida. La comunità non può sopravvivere senza una rianimazione del territorio, della Nazione che si fa Stato. È la tradizione che trasmette la linea di vetta mentre si esce da questa fase catastrofica dello svolgimento finale del capitalismo che sta mangiando se stesso, come il comunismo.
Gli esclusi, i momentaneamente vinti, sono stati spossessati, privati di ogni sorta di cittadinanza, di libertà, di responsabilità. Ma è in corso una lotta simbolica per il riconoscimento, per l’accesso ad una agibilità umana, culturale e sociale improcrastinabile. Questa passa per la riconquista del senso del futuro e del progetto e quindi del passato. Lo slancio, la speranza e la volontà devono contrastare la morte dell’agire, devono rappresentare la via per realizzare una vita più giusta, più nobile, più equilibrata. Bisogna ritrovare la potenza spirituale delle origini, il fuoco che accendeva le passioni e dava loro una meta. È il tempo di riconoscere che la nuova ricerca storica ha un’indubbia anima di verità: in special modo se si riesce a leggere tra le righe. E poi non si accettano le vecchie pigrizie intellettuali, luoghi comuni e stucchevoli menzogne. Tra simulacri e simulazioni, contraddizioni e fallimenti è sempre più difficile mentire a tutti e sempre.

Pietro Golia

L’idea che ogni Paese debba comprare le merci là dove costano meno, invece di produrle in proprio, è l’ideologia liberista, la neweconomy, che distrugge la natura e impoverisce persino chi ha un lavoro a tempo pieno. A furia di calcolare i costi e i benefici, il minimo investimento per ottenere il massimo rendimento, la manodopera a basso costo – se fosse possibile a costo zero, dicono loro – è motivo ricorrente degli sfruttatori di tutti i tempi, che continuano a sognare per poi praticare lo schiavismo, il profitto, l’usura. E a Manhattan, a New York cresce il numero dei risciò, le carrozzine trainate da un uomo a piedi, che una volta erano simbolo dello sfruttamento e dell’oppressione e che oggi segnano la deriva della grande crisi, per procurarsi gli spiccioli che servono ad arrotondare il misero gruzzoletto della precarietà, a sopravvivere.
Conta sulle tue forze, bada a te stesso, difendi il tuo territorio, la tua libertà, la tua vita”.
Ci sono scuole che insegnano queste linee di vetta. I giapponesi producono il riso a costi quadrupli di quelli americani, ma non importano riso americano come vorrebbe invece la Casa Bianca. I giapponesi in questo modo non difendono solo i loro agricoltori, che in fondo sono cinque milioni su cento milioni di abitanti, ma difendono il modello di vita contadino, il paesaggio giapponese, l’uomo artigiano, la sua cultura e la sua attività, la comunità di emozioni, la lingua, i canti popolari. I giapponesi non hanno sposato la tesi della flessibilità estrema nonostante la stagnazione economica.
L’economia deve servire alla società: non viceversa. La cultura e le culture camminano con la vitalità e l’efficienza dell’eterno ritorno. “Essere contadino non è una professione, non è un mestiere. È un modo di vivere”, dice José Bové. “Su tutto il pianeta i contadini si sono sempre mobilitati per difendere le proprie comunità e preservare le proprie culture. A partire dalla metà del XVIII secolo, in Gran Bretagna, l’industria nascente ha una sempre maggiore necessità di manodopera per azionare i filatoi, alimentare le prime macchine a vapore, scavare le gallerie delle miniere di carbone. Il sistema di potere del tempo si adopera a far uscire i contadini dalle campagne per trasformarli in minatori, operai metallurgici, piccoli tessitori. La rivoluzione industriale che avanza è violenta – continua José Bové – Strappa dalla terra centinaia di migliaia di famiglie e le scaraventa in città insalubri dalla densità di popolazione esplosiva. È una trasformazione radicale dalle pesanti conseguenze. In qualche decennio i contadini, produttori di alimenti, sono trasformati in consumatori che dipendono da un salario per pagarsi il cibo e da un sistema globale di approvvigionamento. Nel 1820, nel Regno Unito, a vivere di agricoltura rimaneva una sola persona su cinque. Da rurale che era, l’Inghilterra diventò urbana e salariata. La società umana aveva girato pagina”.
L’Europa, l’Italia, il Sud, prima di aprire i confini alle merci di ogni parte del mondo, dunque, dovrebbero ricordare i risultati dove questa apertura è stata senza regole incoraggiata: l’Inghilterra, un paese che non produce più nulla e che si regge su usure vecchie e nuove.
Gli uomini, gli uomini liberi, non si possono trasformare in bocche da sfamare e in larve umane alle prese con badanti sfuggite da altri inferni.
Questa terra non è in vendita. Come le sorgenti d’acqua, come i semi, le piante, gli animali non sono organismi da modificare geneticamente. Non tutto si compra, non tutto si vende.

Pietro Golia

Dietro la depressione c’è la stanchezza del vivere, la resa, il tirare a campare e non lo spirito del fiero combattimento. Non c’è lo sguardo attento e amoroso di una comunità, della persona. D’altronde la società è tutta liquida, con le sue vite spezzate, con le sue ubriacature, le sue paure. “La paura ha mille occhi e vede anche le cose che stanno sotto terra”, ci ricorda Miguel de Cervantes Saavaedra in Don Chisciotte della Mancia. Se la paura ti prende non ti fa vivere il presente, lo spirito del tuo tempo, la realtà. Diventa difficile allargare il proprio orizzonte, andare oltre il proprio sguardo. Diventa difficile comprendere. Ci sono cambiamenti nelle grandi città e nei borghi, e poi anche sgretolamenti. Emergono nuovi governi, nuove leggi, nuove mentalità, nuovi legami. E tu in una cantilena ossessionante ripeti: niente di nuovo sotto il sole!Eppure, sono le dinamiche delle trasformazioni silenziose. Improvvisamente producono inediti movimenti politici, culturali, sociali. Nuovi carismi. C’è una tensione, un’esplosione, una direzione. Chi avrebbe immaginato il crollo del Muro di Berlino e dell’Unione Sovietica, delle Torri Gemelle, la fine della Prima Repubblica e dei partiti e dei sindacati, la sparizione della politica?
Alla ribalta il nulla, il vuoto politico, che si stenta a colmare. Anche di fronte a nuovi colori e a nuovi assetti si sospetta che si nasconda il vecchio, il decrepito, il marcio. L’incertezza e l’insicurezza smuovono le pigrizie mentali, l’ansia del profondo mette tutto in movimento, tutti in agitazione. La distruzione domani travolgerà la competizione. La chiameranno crisi. Chi ha una volontà, ha un progetto. Trova una compagnia, uno sguardo, una voce, un amore. E’ la solidarietà senza la quale non c’è senso di appartenenza. L’identità militante, mobilitante, invoca la patria, la comunità, il lavoro, o meglio l’arte, la fantasia. La tua città e il tuo popolo sono gli interessi generali, il Bene Comune, l’etica e l’estetica, il tuo destino. Il denaro in testa, l’arrivismo, l’individualismo narcisista ti conducono alla dissociazione interiore, alla guerra civile molecolare, ai micro conflitti senza il Nemico, ma con una serie di “inimici” da ballatoio. Se il livello è basso significa che aumentano i disagi mentali, le difficoltà di comprensione della vita che ci arrivano diritti in faccia: il viso diventa di gesso, il soffio vitale spira altrove.
Presentire, ascoltare cuori che battono, andare incontro al futuro, che, oltretutto, ha un cuore antico. Come ieri così adesso, come in alto così in basso.

Pietro Golia

L’emigrazione è una tragedia sociale che incomincia dopo l’Unità d’Italia. Pietro Calà Ulloa, primo ministro di Francesco II di Borbone, in una lettera a Monsieur Paris recante la data del 1° novembre 1866, scrive sulla drammatica situazione nell’ex Regno delle Due Sicilie: “Il popolo manca di lavoro, di pane, di speranza. Anche a Napoli si è avuto uno spettacolo pietoso. Arrivava una carovana ininterrotta di contadini delle Calabrie, della Basilicata e del Cilento, che venivano per emigrare. Li hanno descritti pallidi, disfatti, con l’aspetto della più crudele miseria. Già una quantità di operai, cacciati dagli arsenali e dai cantieri, sono partiti per l’Egitto, dove essi sperano di procurarsi un lavoro e del pane presso la Compagnia dell’Istmo di Suez. Dalla Sicilia a Tunisi, a Tripoli, ad Algeri, è, per dire così, continua. Molti abitanti delle province continentali cercano nel porto di Genova l’occasione per imbarcarsi per l’America meridionale. Ce ne sono stati tanti crudelmente delusi e che si sono trovati arruolati come soldati. Gli abitanti dell’isola di Ustica, in Sicilia, molto spopolata del resto, debbono quasi tutti recarsi a Buenos Aires. Ma come è accaduto che gli abitanti delle Due Sicilie, il popolo meno fatto prima per lasciare la sua patria, se non per viaggiare, siano spinti ora da questa furia di emigrazione? Sono le imposte opprimenti, è la mancanza di commercio e di lavoro, è il dispotismo del governo, è il brigantaggio, la legge Pica, la legge Crispi, che sono la causa”.
Alcuni decenni dopo, l’emigrazione dal Sud assunse dimensioni di massa, divenne fenomeno vertiginoso che coinvolse moltitudini di esseri umani in fuga dalla miseria ormai dilagante. Era anche il costo sociale, umano, del processo di industrializzazione che non guardava in faccia a nessuno, disintegrava ogni comunità e incominciava a spezzare legami ancestrali con il territorio, con i colori, i sapori, il prossimo. L’emigrazione non fu mai una risorsa, fu la disperazione di chi si sentiva braccato dalla nuova realtà, con l’ultima speranza di farcela, disposto a tutto: anche a cadere dalla padella alla brace.
Il duca di Maddaloni, Marzio Carafa Pallavicino, che era caduto nell’illusione risorgimentalista e unitarista, dovette capire immediatamente la brutalità degli invasori piemontesi. Alla Camera dei deputati del Parlamento della nuova Italia (Torino, 6-22 novembre 1861), novello pentito, con interpellanze e mozioni, scrisse e denunciò le immediate e disastrate condizioni del Sud che stavano sotto gli occhi di tutti e l’opera nefasta del processo di colonizzazione da parte del Piemonte:

“ … La loro smania di subito impiantare nelle province del napoletano quanto più si poteva delle istituzioni del Piemonte, senza neppure discettare se fossero o no opportune, fece nascere sin dal principio della dominazione piemontese il concetto e la voce «piemontizzare» …

… intere famiglie veggonsi accattar l’elemosina; diminuito, anzi annullato, il commercio; serrati i privati opifici per concorrenze subitanee, intempestive, impossibili a sostenersi e per lo annullamento delle tariffe e per le mal proporzionate riforme …

… e frattanto tutto si fa venir dal Piemonte, persino le cassette della posta, la carta per i dicasteri e per le pubbliche amministrazioni. Non v’è faccenda nella quale un onest’uomo possa buscarsi alcun ducato che non si chiami un piemontese a disbrigarla. A’ mercanti del Piemonte dannosi le forniture più lucrose: burocratici di Piemonte occupano quasi tutti i pubblici uffici, gente spesso più corrotta degli antichi burocratici napoletani. Anche a fabbricare le ferrovie si mandano operai piemontesi i quali oltraggiosamente pagansi il doppio che i napoletani. A facchini della dogana, a carcerieri, a birri, vengono uomini dal Piemonte e donne piemontesi si prendono a nutrici dello spizio de’ trovatelli quasi neppure il sangue di questo popolo più fosse bello e salutevole. Questa è invasione e non unione, non annessione! Questo è voler sfruttare la nostra terra siccome terra di conquista. Il governo del Piemonte vuol trattare le province meridionali come il Cortez od il Pizarro facevano nel Perù e nel Messico, come i fiorentini nell’agro pisano, come i genovesi nella Corsica, come gli inglesi nel Bengala …

… bella unificazione è quella di una contrada cui si affoga in un mare di sangue, cui si crocifigge in un letto di miserie! E pure questi misfatti perpetrano gli uomini preposti oggi alla cosa pubblica: essi che spengono nei nostri popoli anche le dolci illusioni di libertà che gli fan vedere come un reggimento costituzionale potesse divenire sinonimo di dispotismo; come all’ombra di un vessillo tricolore facilmente si violasse il domicilio, il segreto delle lettere e la libertà personale si potesse manomettere e sin le forme stesse della giustizia; e gli accusati tener prigionieri ed ingiudicati lunga pezza e mandare a morte senza neppur procedura di giudizio, per solo capriccio di un caporale o per sospetto e delazione di qualche scellerato …

… i popoli del napoletano […] accolsero Garibaldi. Ma fastiditi ben tosto, di lui no, ma degli uomini che per esso reggevano o meglio sgovernavano la pubblica cosa, accettarono il partito di darsi a casa Savoja. Ma oggi aborrenti della tirannide e della rapacità piemontese, ed inorriditi dall’anarchia la quale sotto Garibaldi era alle porte del regno ed oggi vi si è messa dentro e regnavi ferocemente, darebbesi a qualsiasi uomo o demonio il quale non il bene di queste contrade promettesse di fare, ma il loro male minore … ”!

Emilio Gentile, storico contemporaneo, manifesta il suo pensiero sul dibattito storico-politico in corso: “A questo punto, e visti i progetti che circolano, i nostri governanti dovrebbero sospendere le celebrazioni per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, e mettersi seriamente a studiare, per i prossimi 150 anni, la storia patria”. Elementi di studio da tempo li stiamo dando anche noi. Fu malaunità, invasione, conquista del Sud, rapina. Seppero fare solo più grande il Piemonte.

Pietro Golia

Quando la scommessa era clandestina, i mezzi di comunicazione, magistrati, preti e suore, istituzioni, politici e sindacalisti tuonavano contro la camorra. Si sprecavano i sarcasmi contro l’ultima tassa nei confronti degli stupidi, un altro retaggio borbonico che persisteva dal lontano 1725, dicevano.
Adesso che lo Stato non ha più un’etica, che ha fatto posto al mercato, il banco non è più nelle mani della dea bendata, ma dei privati che hanno strappato le concessioni a colpi di tangenti agli “statali”, a quelli che hanno le leve del potere.
Si scommette su tutto, tutti i giorni, a tutte le ore. Si aprono punti, luoghi per scommesse, per puntare, al centro e in periferia, nelle zone strategiche, ove il traffico già caotico diventa il maxingorgo quotidiano. Chi ha l’ansia della scommessa e non fa gioco, certamente non il suo, parcheggia come capita. Il gioco non è un gioco, è una truffa, è una bolletta. E ti porta diritto all’alienazione, all’indemoniamento. Alla smobilitazione. Non c’è più la partita, ci sono le partite. Per tutto il mondo: la globalizzazione degli smidollati.
Ma lo Stato può trasformarsi in Stato biscazziere? In una bisca pervasiva, in una miriade di Punti scommesse, in un mercato senza misura, che truffa ed estorce il consenso, il denaro? Che ti svuota la vita e ti svuota le tasche? Com’è che è accaduto tutto ciò?
È accaduto perché tutto è finito. La fine dei conflitti e delle rivolte, la fine delle illusioni e delle utopie, la fine delle idee e dei valori, la fine dei modelli, la fine dell’intelligenza e della giovinezza, delle classi e della nazione, la fine dello Stato.
Piccoli avvenimenti continuano ad esserci, naturalmente: sono piccole rappresentazioni senza trama. Si passa dalla società dei consumi a quella delle comunicazioni, cioè l’arte di fare del nuovo con i vecchi tromboni, di tutte le età e di tutti i colori. È l’ideologia della contaminazione, del trasformismo, del compromesso, dell’indistinto. Lo Stato non deve esistere, non deve avere un’Etica o deve far rima solo con mercato. Per i contaminati, se proprio non se ne può fare a meno, lo Stato deve essere minimale, neutro politicamente e ideologicamente: deve obbedire agli azionisti, agli affaristi, ai tecno-economisti. Il pensiero unico porta a ragionamenti a senso unico, a nevrosi ossessive, ad una incapacità sempre più cronica che non riesce a comprendere la realtà. I nuovi padroni non si sentono responsabili delle ingiustizie che registrano, che li assediano: la carità, o meglio l’elemosina, che diventa l’ultimo grido di moda di questo momento, è un alibi del fariseismo odioso e mellifluo. Le tensioni sociali, però, non si possono dissimulare. Insorgono per un attimo, in un attimo. Funziona, adesso, la strategia della confusione, della distrazione. L’intellettuale, che vive al caldo, nelle pieghe di mille privilegi, al confine tra le ingiustizie che a malapena elenca, balbetta, incomincia ad avvertire qualche insicurezza: le tensioni ogni tanto provocano scricchiolii, il mandarinato di potere annaspa e ha paura.
La crisi, ma è ancora una piccola crisi, è superata: compromesso e trasformismo rinviano il nodo da sciogliere e fanno avvicinare le classi dirigenti/digerenti al baratro. L’ordine della produzione e dei consumi va in contraddizione. Si trasforma nello schiavismo in terre lontane, in migrazioni di povericristi illusi di scampare al loro inferno e in qualità zero perché non c’è più l’arte, l’artigianato, la vita che pulsa.
La pubblicità alienante ti nasconde che ogni produzione è da vomito, che ogni individuo davanti al televisore è un ebete. La ripresa? Lo sviluppo? Investire capitali? Essere competitivi? Rischiare? Chiacchiere.
Lo Stato, dopo tutto, è solo una istanza pratica e amministrativa. Ma il mondo è una effervescenza tragica. La moda è divenuta l’ultima ideologia possibile. Eppoi c’è un bisogno di denunciare il diavolo esteriore. Si vive all’ombra del diavolo. Ciascun per sé, il diavolo per tutti. Il denaro non può essere il garante di tutte le relazioni misurabili fra gli individui che non sono intercambiabili.

Pietro Golia

Occorre leggere le pagine dimenticate eppure tragiche, significative, che ben fanno intendere le tare ataviche degli italieni, degli unitaristi che volevano fare più grande il Piemonte, al servizio di una congiura internazionale ove si fronteggiavano, avendo anche interessi e obiettivi in comune, Inghilterra e Francia con le rispettive massonerie, protestantesimo e sette minori, società dell’allegria, il partito piemontese contro la Chiesa Cattolica di don Bosco. Governanti senza scrupoli, senza dio, rivoluzionari di professione e da operetta, liberali e giacobini. Per interpretare questo fiume in piena, che si trasforma sempre più frequentemente in fiume di sangue, gioco al massacro della stessa Rivoluzione che divora i suoi figli, bisogna non dimenticare la data che segna un’epoca: il 1789, la Rivoluzione francese.
In quel momento salta in aria il mondo. Nulla sarà più come prima. Con il crollo dell’ancien régime si ha un profondo mutamento di clima esistenziale e comunitario, di legami e rapporti socio-politici, culturali e metapolitici ai livelli sempre più profondi.
A cerchi concentrici, sempre più larghi, successivamente, il 1799, la Repubblica partenopea, sostenuta dalle baionette napoleoniche, il decennio francese, il 1848, poi l’invasione della banda armata di Garibaldi, che anticipa l’invasione del Grande Piemonte al Sud. Fenomeni grandiosi, terribili, enigmatici, inquietanti. Chi si contrappone alla linea del progresso sfida la modernità. È lo scontro fra due mondi. Anche la guerra non è più quell’antica festa crudele. Non è più lo scontro tra Orazi e Curiazi, sangue sparso e sangue risparmiato. È guerra tecnica, un anticipo delle tempeste d’acciaio, i cannoni rigati Cavalli, guerra di materiali, guerra sempre più totale.
In queste guerre la prima vittima è l’innocenza, pietà l’è morta. La pulizia etnica è liberale e piemontese. Insieme alle truppe ci sono i fotografi. È il trionfo della fotografia. Essa serviva a documentare le fucilazioni, le teste mozzate e ingabbiate. È un monito per terrorizzare a futura memoria. I discendenti delle vittime di esecuzioni sommarie hanno ancora paura e mille timidezze: “Non puoi fare il brigante, non puoi essere un ribelle”. Puoi fare il piagnone, la vittima, chiedere qualche soldo per il rimborso, per le pari opportunità, per diminuire il divario. Una sconfitta, una occupazione, una colonizzazione proiettano un’ombra lunga sul paese vinto, con polemiche, depressioni, velleità di riscatto, rassegnazioni che ristagnano per secoli.
Insieme all’esercito ci sono i giornalisti, agenti segreti, spie, Guardie nazionali, squadriglieri, infiltrati. Un esercito, quello piemontese, di massacratori, devastatori e corruttori. Senza onore né gloria. L’onore delle armi, l’onore militare era praticamente sconosciuto, di contro ad un romanticismo legittimista che faceva accorrere nel Regno delle Due Sicilie combattenti, idealisti, avventurieri.
Qual era l’accusa di sempre che riecheggia ancora? La dichiarazione subdola del Ministro Bettino Ricasoli, per il quale la reazione napoletana del brigantaggio non era un movimento politico, da potersi paragonare a quello dei guerriglieri di Don Carlos, dei seguaci degli Stuardi o dei Vandeani. «Invano – concludeva il Ricasoli – domandereste loro un programma politico». Ma era certamente un’affermazione erronea, se l’opposizione poteva concordemente confutarla, rispondendo, tra l’altro, per mezzo di un anonimo: “Ma la bandiera borbonica, che i Sardi vedono spuntar sopra ogni vetta, non è ella un programma politico abbastanza visibile? E le grida di Francesco II, che i Sardi odono risuonare sì spesso, non sono elle un programma politico abbastanza udibile? E le fratture sì frequenti dei busti di gesso del Re Sardo e del Garibaldi, che si fanno dovunque apparisce un brigante, e l’alzamento al loro luogo dei ritratti di Francesco II, non sono elle un programma politico abbastanza evidente? E lo sterminio che in ogni paese, dove sorge la reazione, si fa di tutto ciò che è liberale, piemontese o garibaldino, non è egli un programma politico abbastanza palpabile? Ma forse il Ricasoli crede che non vi sia programma politico se non che dove si hanno note diplomatiche e discorsi al Parlamento”.
Già allora seguì una replica puntuale e lucida del giornale “Il Napoletano”: «…Ella chiama le bande saccheggiatrici, però nessuno dei giornali, neppure governativi, ha potuto asserire di un paese distrutto dai briganti mentre gl’istessi giornali parlano di San Marco in Lamis, Rignano, Spinelli, Montefalcione, Auletta, Viesti, Ponte-Landolfo, Casalduni e Cotronei messi a sacco e fuoco dalle truppe Sarde. Dunque, nel fatto, quali delle due parti merita il nome di saccheggiatrice?…»
È il caso, dunque, di provare sempre a contestualizzare i fatti con un serie di interrogativi e riflessioni, a leggere fuori dalla propaganda, dai luoghi comuni e dalle pigrizie intellettuali. Andiamo oltre la memoria consolatrice, la memoria incatenante. La terra è nostra e non si deve toccare. Non possiamo collaborare con gli invasori, ribelliamoci con tutti i mezzi possibili. Sono i napoletani al cospetto delle nazioni civili, sono i contadini che hanno capito che stanno per essere schiacciati dagli invasori e dagli affamatori di sempre, dagli usurai e dai borghesi, proprietari di terre e delle loro vite. Giacinto de’ Sivo darà loro voce e motivi, anche per gli sbandati che si dilettano di storia nei tempi delle celebrazioni patriottarde e retoriche, anche quelle del 2011, per tutte le tavole rotonde e imbandite, per i moderati e gli opportunisti di tutti i tempi: «Ma se l’azione fu rea, la reazione è santa. Che vale che i tristi la dicano “brigantesca”. Ne avete tolte l’arme a tradimento e siamo briganti combattendovi senz’arme alla svelata? Briganti noi combattenti in casa nostra, difendendo i tetti paterni: e “galantuomini” voi venuti qui a depredar l’altrui? Il padrone di casa è il brigante e non voi piuttosto venuti a saccheggiar la casa? Ma la coscienza universale ha giudicato: è già l’Europa ha imparato a intender a rovescio le vostre parole. Se siamo briganti, quel governo che sforza tutto un popolo a briganteggiare è perverso. Quel governo che impone con le bombe e le fucilazioni è spietato; e se prima poteva avere amici fra gli illusi, dopo la prova ha solo oppressi che l’aborrono. E questo nome stesso di briganti, che fu già triste e abietto, noi lo facciamo amare dall’anime gentili, e lo renderemo glorioso”.
Ma sono tempi di guerra, per Carmine Crocco saranno tempi di guerra per bande, guerra di guerriglia. Le forze sono impari, il brigante, il guerrigliero deve scegliere i luoghi e i tempi. Lo scontro frontale, la guerra classica per chi deve fronteggiare un’invasione che si trasforma anche in guerra civile, guerra di religione e guerra di classe è un lusso politico che porterebbe a sicura rovina.
Lo stesso generale piemontese Alessandro Bianco di Saint Jorioz già nella prima metà dell’Ottocento teorizza la guerra per bande, la guerriglia. La macchina da guerra piemontese non gli sembra sufficiente: ha bisogno di essere affiancata da forze irregolari ed oblique. Lo scontro, l’incomunicabilità tra Borjés e Crocco verterà anche su questo.
I centri che vengono saccheggiati sono quelli che hanno una fisionomia politica e sociale inequivocabile: sono i luoghi, i palazzi dove ci sono i ricchi, gli sfruttatori, quelli che hanno angariato le popolazioni circostanti. Sono le residenze storiche dei liberali, dei giacobini, sono le zone grige ove sono accumulati viveri di prima necessità.
L’alleanza non era possibile, l’intesa durò poco. Padrone del campo era Crocco e tale rimase. Borjés dovette ripiegare. Poteva l’esercito più potente (i piemontesi, le Guardie nazionali, gli squadriglieri) soccombere? No, non poteva. Un Cardinale Ruffo non si trova ad ogni angolo di storia.
Nella storia ci sono stati casi di forze minori e meno equipaggiate che hanno tenuto duro, ostacolando anche se non sconfiggendo militarmente un nemico potente. Nei tempi moderni si è capito che le tattiche di guerriglia hanno bisogno di santuari e di appoggi, che occorre diffenziare la guerriglia, non andare alla ricerca di asfissianti e pericolosi coordinamenti: la guerra convenzionale è un’altra cosa. Nella guerriglia piccole unità che agiscono in modo indipendente giocano il ruolo principale e non deve esserci una interferenza eccessiva con il loro operato. Carmine Donatelli Crocco l’aveva capito prima di Mao Zedong, Che Guevara e Ho Chi Minh. Nella guerra tradizionale, quella che voleva fare il legittimista José Borjés, «il comando è centralizzato… Tutte le unità e tutte le armi di sostegno in tutti i distretti devono essere coordinate al massimo livello». Nella guerriglia, quella sorta di comando e controllo era «non solo indesiderato ma anche impossibile».
Il brigantaggio era una guerriglia, era l’opposizione all’invasore piemontese. Garibaldi e i mille, l’esercito piemontese erano gli invasori del Regno delle Due Sicilie, cioè del nostro Sud, delle nostre terre.

Pietro Golia

Una guerra civile durata dieci anni. Un esercito di occupazione di almeno centoventimila uomini calato dal Piemonte, che si avvaleva di altri centomila tra collaborazionisti, guardie nazionali, cacciatori di taglie, “squadriglieri”, spie, infiltrati, avventurieri e mercenari stranieri. Una borghesia compradora che, come sempre, si schiera con le forze che combattono la comunità nazionale di cui fa parte. Uno scontro di civiltà derubricato a questione di controllo del territorio e di tenuta dell’ordine pubblico. La menzogna del moderatismo unitarista, imposta come verità indiscutibile, secondo cui i nemici sono solo ladri e assassini, grassatori, estorsori e sequestratori. La guerra civile che insanguinò le terre del Sud soltanto dopo centocinquant’anni inizia a emergere in tutta la sua enorme portata, rompendo il muro di silenzi e menzogne che ha nascosto a un intero popolo la sua storia. Che ha inquinato vicende, mistificato le storie di uomini liberi e donne coraggiose, che difendevano la loro comunità, le tradizioni, la religione e anche gli usi e i costumi che gli occupanti volevano distruggere.
È la storia anche delle donne, del ruolo delle donne, delle brigantesse, in un conflitto lungo e spietato. Di cui si ignorano ancora le reali dimensioni e in cui vengono capovolti i significati stessi delle parole. I briganti, i patrioti che difendevano i loro luoghi e i loro paesi erano definiti “occupanti”. L’esercito piemontese, invasore, veniva descritto come una forza di liberazione.
Le trasformazioni violente imposte dalle ideologie della disgregazione e dell’omologazione puntano sempre a scardinare le culture, a incidere sulle esistenze e sui modelli di vita, a impoverire le comunità. I processi unificanti di centralizzazione, che si ispirano ai modelli liberali, neogiacobini, laicisti, presentano sempre gli stessi connotati. Anche oggi, con la globalizzazione, si distruggono le economie, i sistemi produttivi, si usurpano le ricchezze dei popoli, si tenta di secolarizzare ulteriormente le religioni e banalizzare le concezioni del mondo. E così un Regno, che era stato grande, dove le donne già lavoravano a migliaia nelle fabbriche manifatturiere (ad esempio, nel Matese, a San Leucio, ad Arpino e Isola Liri), viene ritenuto arretrato, oscurantista, discriminatorio del ruolo femminile nelle società. Le brigantesse nascevano anche da questo ruolo comunitario partecipativo della donna, che nella società patriarcale era centrale, custode dei valori tradizionali della cultura contadina e permeato dallo spirito di sacrificio. Le donne, come gli uomini, si ribellavano all’arroganza e alla violenza dell’esercito di occupazione e dei suoi collaborazionisti. La funzione delle donne nella guerra civile italiana degli anni successivi al 1860 si è voluta limitare a quella di semplici compagne e amanti, dispregiativamente chiamate drude, dei guerriglieri. E non poteva essere così. Il dispotismo liberale e borghese, intriso di maschilismo, impose questa lettura deviante di un fenomeno che smentiva la vulgata dominante sul ruolo delle donne nel Sud.
Anche il solidarismo comunitario del popolo meridionale fu travolto nello scontro tra borghesia unitarista e popolo. Una borghesia, quella risorgimentalista, che mostrerà il suo vero volto nella descrizione che ne farà Salvemini e che sarà il pilastro del trasformismo italiano. Una rovina per il popolo meridionale, che costringerà milioni di uomini e donne a emigrare e provocherà il grande vuoto di intelligenze e volontà, che contribuirà a segnare negativamente il destino di tutto il Mezzogiorno. La storia di Michelina Di Cesare, la guerrigliera definita brigantessa, si inserisce a pieno titolo nella storia dell’opposizione popolare alla colonizzazione. Le rievocazioni di quei tempi, spesso, anzi quasi sempre, ignorano le tragedie di quelle vicende umane. Persino il significato di amori, di legami, di ruoli, anche militari. Sono rievocazioni al maschile, tiepide, che risentono della cultura borghese unitarista imbevuta di moralismo ipocrita, curiosità pruriginosa e pavida autocensura. Manca la dimensione epica, proprio perché manca l’ethos, che fa comprendere l’essenza profonda della vicende narrate. Tocca a Eugenio Bennato, con la ballata Il sorriso di Michela, evocare le emozioni e il significato della guerriglia di popolo della quale Michelina Di Cesare fu protagonista. Quello di Bennato è un inno (che si aggiunge a Brigante se more, Ninco Nanco, Canzone per Iuzzella, Vulesse addeventare) alla spontaneità di una ribellione contro il cinismo trionfante, la cattiveria, l’assenza di scrupoli e il disprezzo per gli altri, che la storiografia ufficiale si rifiuta di rilevare. Proprio questa mentalità cinica e discriminante ha imposto una lettura mistificatrice del brigantaggio, che a volte affiora anche in autori insospettabili. Il guerrigliero per l’indipendenza del Sud, il patriota, l’insorgente diventa un criminale, dedito solo al furto e all’arricchimento. Fu una lettura da cui perfino un liberale come Benedetto Croce prese le distanze. Croce invitava a non confondere la figura del guerrigliero-brigante che metteva in discussione il sistema di potere straniero, corrotto, per lui inaccettabile, con quella del delinquente che rubava per sé.
La ribellione del Sud fu un darsi al bosco, istintivo, quasi ereditario; al bosco sacro luogo della religiosità naturale, della tradizione; alla montagna come simbolo di libertà. Non a caso i pastori rappresentavano le truppe scelte di questa ribellione, loro che avevano per tetto un cielo di stelle. Il brigante è un uomo portatore di passione, rifiuta di piegarsi a una realtà che gli viene imposta e che sente estranea. La sua è una partecipazione emotiva, in armonia con l’essere del mondo. Non appartiene alla ragion conveniente. Sa amare, sa combattere. Si imbatterà, nel decennio di guerra civile 1860-1870, in torture, repressioni efferate ed inimmaginabili, brutalmente estese a familiari e amici. Alcuni di loro saranno fatti a pezzi, bruciati e dati in pasto alle bestie. Come si fa a non comprendere la spietatezza di questi modelli di sadismo e ferocia repressiva? A presentare come legge e ordine quello che era frutto di violenza e usurpazione? Erik Hobsbawm, a differenza sinanche di tanto nostalgismo storico, riesce a comprendere e a ben delineare la figura del brigante: Primo: il brigante non comincia la sua carriera di fuorilegge con un delitto, ma come vittima di un’ingiustizia o perseguitato per un’azione che l’autorità, ma non la sua gente, giudica criminosa. Secondo: raddrizza i torti. Terzo: prende dal ricco per dare al povero. Quarto: non uccide, se non per autodifesa o per giusta vendetta. Quinto: se sopravvive ritorna tra i suoi come un cittadino onorato. Sesto: è ammirato, aiutato e appoggiato dai suoi. Settimo: egli muore invariabilmente ed esclusivamente per un tradimento, perché nessun membro che si rispetti della comunità sarebbe disposto a collaborare con le autorità contro di lui. Ottavo: il brigante è – almeno in teoria – invisibile e invulnerabile. Nono: non è un nemico del re o dell’imperatore, fonti di giustizia, ma soltanto dei signorotti locali e di altri oppressori.
Quanti si tengono lontani da uomini e luoghi dell’epicentro della guerra civile italiana che va sotto il nome di Risorgimento non coglieranno mai appieno il significato, i sentimenti, le mentalità di quel tempo, di quello scontro. Non riusciranno mai a cogliere la partecipazione emotiva che animava quanti si rifiutavano di adattarsi al sistema di potere e ai tempi imposti dall’invasore. Sembrerà strano, ma è una storia che si ripete. C’è un evidente collegamento tra il 1789, il 1799, l’occupazione napoleonica e la rivoluzione unitarista, secondo una lettura che nel 1926 già faceva Niccolò Rodolico ne Il popolo agli inizi del Risorgimento nell’Italia Meridionale (1798-1801): Quando i reggitori della Repubblica di San Marco, tremanti di paura alle minacce francesi, strappavano le gloriose insegne del leone alato, e supplicavano pace, i contadini del Veronese gridavano Viva San Marco! E morivano per esso in quelle Pasque che rinnovavano i Vespri. Quando sotto il cumulo di umiliazioni patite da prepotenti francesi e da giacobini paesani, Carlo Emanuele avvilito abbandonava Torino, i montanari delle Alpi, i contadini piemontesi e monferrini continuavano disperatamente la resistenza allo straniero. Quando nella Lombardia gli Austriaci si ritiravano incalzati dai Francesi, i contadini lombardi, a Como, a Varese, a Binasco, a Pavia, osavano ribellarsi al vittorioso esercito di Bonaparte, sfidando la ferocia della sua vendetta. Quando il mite Ferdinando III di Toscana era licenziato dai nuovi padroni, e i nobili fuggivano, e i Girella, democratici improvvisati, venivano fuori con la coccarda tricolore, i contadini toscani insorgevano al grido di Viva Maria! Quando nelle Marche scappavano generali e soldati pontifici e il vecchio Pontefice arrestato era condotto via da Roma sua, non i Prìncipi cattolici osarono protestare, non Roma papale insorse, ma i contadini dai monti della Sabina alle marine marchigiane caddero a migliaia per la loro fede e per il loro paese.
Quando vilmente il Re di Napoli con cortigiani, ministri e generali fuggiva all’avanzarsi dello Championnet, soli, i montanari degli Abruzzi, i contadini di Terra di Lavoro, i Lazzaroni di Napoli, si opposero all’invasore in una lotta disperata e sanguinosa.
Come appare superiore per dignità umana e nazionale il più rozzo di quei popolani d’Italia, che muore combattendo lo straniero, al confronto del letterato che giura di morire per San Marco, e che il giorno dopo acclama in versi lo straniero!
Orbene, tutto questo, che è dignità e fierezza, spirito di sacrificio, è considerato, specialmente per l’Italia Meridionale, fanatismo e brigantaggio.
Occorre, per comprendere il senso di questa storia, uno sguardo profondo, capace di cogliere le linee e le direttrici dinamiche di una trama complessa, ma in ogni suo aspetto significativa. In questi tempi di ideologie disgreganti, omologanti e centralizzatrici, che vogliono ridurre l’uomo a una muta e spaesata comparsa della commedia umana, sempre più precaria, è necessario ripercorrere luoghi, evocare personaggi, rivivere vicende e gesta che esprimono culture e sentimenti di opposizione e di insorgenza, secondo un pensiero autenticamente ribelle, per un destino di dignità, consapevolezza e libertà.

Pietro Golia

Chiamiamo Ribelle chi nel corso degli eventi
si è trovato isolato, senza patria,
per vedersi infine consegnato all’annientamento.
Ma questo potrebbe essere il destino di molti – forse di tutti.
Perciò dobbiamo aggiungere qualcosa alla definizione:
il Ribelle è deciso ad opporre resistenza,
il suo intento è dare battaglia, sia pure disperata.
Ribelle è dunque colui che ha
un profondo, nativo rapporto con la libertà,
il che si esprime oggi nell’intenzione di contrapporsi
all’automatismo e nel rifiuto di trarne
la conseguenza etica, che è il fatalismo.

Ernst Jünger
dal Trattato del Ribelle (1990)

Li definirono briganti, ma erano guerriglieri. Li volevano calpestare e si ribellarono. L’epilogo della loro esistenza fu tragico. A loro fu negata la patria come senso di appartenenza, come comunità di fede e di destino. La loro era una cultura altra interdetta e condannata al silenzio.
Ciononostante i briganti riuscirono a calamitare masse inquiete, riottose e diseredate di fronte a tutte le ondate di giacobinismo militare e borghese, dei nuovi poteri locali antireligiosi e massonici, repressivi e sfruttatori. Gli invasori e i potenti galantuomini non ebbero vita facile, dovettero fronteggiare una guerra di guerriglia sanguinosa. I briganti non seguivano le grandi armate di eserciti stranieri ed invasori sul punto di vincere la guerra, come altri irregolari di epoca a noi più vicina.
I briganti erano l’avanguardia armata, la voce profonda del proprio popolo, che non va confuso con l’insieme della popolazione.
Consapevoli di ciò non abbassarono lo sguardo, non piegarono la testa, non si rassegnarono. Decisero di resistere, avvertendo a volte, e sapendo, che il loro destino era già scritto. Ma il brigante, il ribelle, ha negli occhi il sole accecante della libertà. E questo sole gli impedisce di vedere l’immediato, il conveniente. La sua è una sfida che l’antropologia dell’utile definirebbe disperata. Ma la dignità non ammette i calcoli dell’opportunità e non rispetta il vento della storia.
Scriverà Eric J. Hobsbawm nel 1971: “Il brigantaggio diventa il simbolo, anzi la punta avanzata di resistenza dell’intero ordine tradizionale contro le forze che cercano di scalzarlo e di distruggerlo. Una rivoluzione sociale non è meno rivoluzionaria perché si schiera a favore della reazione contro il progresso. I briganti insorgevano per l’ideale della società del buon tempo antico, simbolizzata naturalmente dall’ideale del Trono e dell’Altare. In politica i banditi tendono a essere dei tradizionalisti rivoluzionari”.
E Hobsbawm senza dubbio dà una lettura della tradizione come rivoluzione che riecheggia parole e convinzioni di ben diversa provenienza.
Quella del brigante era anche una rivoluzione sociale che aveva poco a che vedere con un progetto conservatore, di pura e semplice nostalgia con il passato. “La tradizione non è il passato – ha osservato Alain de Benoist –. La tradizione ha a che vedere con il passato né più né meno di quanto ha a che vedere col presente o col futuro. Si situa al di là del tempo. Non si riferisce a ciò che è antico, a ciò che è alle nostre spalle: bensì a ciò che è permanente, a ciò che ci sta ‘dentro’. Non è il contrario dell’innovazione, ma il quadro entro cui debbono compiersi le innovazioni per essere significative e durevoli”.
I briganti non guardavano all’indietro, ma a quanto è eterno, alla fede, alla religiosità, alle consuetudini, alle identità, alle culture oggi definite subalterne, a tutto ciò che è perenne. Certo non facevano parte di un club giacobino, né partecipavano a sedute di autocoscienza assembleare. La loro resistenza nasceva dal rifiuto dell’arroganza, della violenza supponente, della brutalità dei potenti, della spietatezza ottusa dei colonizzatori.
Anche William Wallace, Braveheart, era un brigante, un cuore impavido, isolato, spogliato della sua patria, consegnato all’annientamento. È il destino questo di chi insorge per la buona causa, qualunque possa essere l’epilogo. Sulle loro gesta viene steso il manto gelido del silenzio, dell’interdetto vendicativo, della negazione etica. Nessun diritto, nessuna ragione. Il brigante ripugna a quanti coltivano l’etica del vincitore, del vincitore a qualsiasi costo e a qualsiasi prezzo.
Nella voce del brigante risuona la memoria profonda di popoli condannati al silenzio e proprio per questo leggendari. Certo quei ribelli ignoranti che in tutte le epoche hanno osato irridere i giacobini, i preti progressisti, i ricchi borghesi, i milionisti sono come una sfida intollerabile all’ordine costituito della censura e della menzogna. I padroni del pensiero e la classe proprietaria delle verità accademiche hanno già pronunciato il loro definitivo anatema. Anche se cercano di mistificare tra ambiguità e minimalismi recuperando pure in chiave classista la leggenda del brigantaggio. Che non fu solo rivolta dei senza terra per una rivoluzione agraria, ma fu ribellione di popolo per restaurare i valori perenni della tradizione. La stessa storiografia legittimista non riesce a comprendere del tutto il fenomeno del brigantaggio. Diffida della mobilitazione armata delle masse, della rivendicazione costante che queste fanno della propria autonomia, del populismo del cardinale Fabrizio Ruffo di Calabria; ha orrore della violenza tragica e a volte irridente di questi contadini in rivolta. Da qui nasce l’isolamento del brigantaggio: ai giacobini il brigante ripugna, ai legittimisti ispira diffidenza e paura. Ecco perché l’Italia poté affondare la lama delle leggi speciali nella sabbia degli interessi di classe, dei conservatorismi e dei trasformismi di ceto, della cultura predatoria degli invasori sopraffattori.
Con lo stato d’assedio del 1862 e con la legge Pica del 1863 alla dittatura garibaldina, velleitaria e caotica, si sostituisce la dittatura della borghesia liberale che reprime le identità, le diversità e tutto ciò che sa di insubordinazione radicale e permanente. Il brigante diventa una minoranza etnica e criminale da annientare con il ferro e con il fuoco, soprattutto con l’arma del pentitismo e della corruzione. Violenza militare, repressione poliziesca e corruzione diventano un tutt’uno.
A uomini che come William Wallace, Braveheart, non avevano voluto vendere l’onore delle loro mogli o delle giovani figlie a signorotti prepotenti, viene negato ogni diritto. Contro i briganti e le popolazioni meridionali si esercita un razzismo etnico ben delineato dalle parole di uno dei tanti, il capitano piemontese del Corpo di Stato Maggiore Generale, conte Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, il quale scrive nel 1863: “Siamo fra una popolazione, che sebbene in Italia e nata italiana, sembra appartenere alle tribù primitive dell’Africa, ai Noueri, ai Dinkas, ai Malesi di Pulo-Penango. Di ladri formicola questo bel paese; sono tanti, quanti sono gli abitanti senza eccezione. Il brigantaggio è per ogni dove in queste province; esso si trova in tutti gli ambienti e su tutti i gradini della società; egli è nella natura e negli istinti di questi popoli”.
Erano queste le voci dei nuovi conquistatori-liberatori-invasori che giungevano dalle colonie del Sud, che dovevano essere normalizzate con la complicità silenziosa di quanti, terrorizzati, avevano perso la voce e la dignità di uomini liberi.

Pietro Golia

Alcuni pensano che il Sud debba stare sotto tutela per sempre, a sovranità limitata, nei meandri di una cultura subalterna, sotto i colpi di un sottosviluppo di stampo neocolonialista. Ci provano persino quelli della Lega, a dire che ci dobbiamo organizzare, sotto quali bandiere sfilare e con quali capi: Clemente Mastella da Ceppaloni che è solito deficere ab aliquo ad aliquem, passare, attraversare i vari schieramenti politici, si fa per dire, secondo la ragione conveniente.
C’è grande confusione sotto il cielo, all’orizzonte si intravede la decomposizione della sfera politica, l’implosione di tutte le ultime forme del politico. Non ci sono classi dirigenti, ma classi digerenti, nazionali e locali, che hanno trasformato il cittadino in suddito, sempre più flessibile, che si deve piegare, che annaspa nella precarietà della vita. Chi riesce a prevedere i crolli imminenti di imperi, di reti, di connessioni e transazioni commerciali, crisi improvvise? Basta un vulcano che si prende la rivincita su tutte le previsioni o distrazioni di scienziati, un aereo che cade e una nazione si ritrova senza un centro decisionale…
Chi ha la forza e la volontà di oltrepassare l’impotenza che permane e che assedia l’individuo disgregato e spaesato? La folla solitaria si balocca.
Ma il Sud che cosa era prima? Prima dell’invasione del Regno Sardo, del Piemonte dei Savoia? Unirono l’Italia o fecero più grande il Piemonte? Si trattò, dunque, di una conquista militare o di una liberazione? Una guerra civile, poi. Uno scontro tra due mondi, tra due mentalità, due nazioni. La civilizzazione dell’Avere contro la civiltà dell’Essere. Fummo calpestati. Subimmo un lavaggio del carattere, del cervello. Misurarono i crani dei nostri antenati e li criminalizzarono. Da centocinquant’anni hanno riservato scorie tossiche e immondizia di tutti i tipi, vizi e aberrazioni senza un attimo di tregua. Modelli di sviluppo che si sono rivelati fallimentari e inquinanti e che faremmo bene a rifiutare.
Il Regno delle Due Sicilie aveva primati che suscitavano invidie e complessi d’inferiorità. Fa sempre bene ricordarli.
Alla Mostra internazionale di Parigi del 1856 il Regno delle Due Sicilie risultò essere il terzo Paese più industrializzato del mondo (la Calabria era la regione più industrializzata d’Italia). Il Regno era il primo paese al mondo per la produzione di pasta alimentare e per la lavorazione del corallo. La prima nave da guerra a vapore e la prima nave da crociera al mondo sono state costruite a Castellammare di Stabia; dopo Francia e Inghilterra, la più grande flotta mercantile al mondo era la nostra, l’unica d’Italia a commercializzare con le Americhe e le Indie; la nave scuola “Amerigo Vespucci” ancora in esercizio per gli allievi ufficiali della Marina Italiana fu costruita a Castellammare, il più importante cantiere navale del nostro regno, oggi ridotto ad officina in procinto di essere sacrificato per i cantieri del Nord.

E ancora, nel Regno delle Due Sicilie avevamo: il ponte sospeso in ferro più lungo d’Italia e secondo al mondo; la maggior produzione siderurgica e la più grande fabbrica metalmeccanica d’Italia; la prima locomotiva a vapore e la più grande Cartiera d’Italia; la prima città della penisola (Napoli) ad essere illuminata a gas; il primo telegrafo elettrico; la prima rete di fari a luce lenticolare; il primo telegrafo sottomarino al mondo; la prima zecca d’Italia; la seconda produzione al mondo di pelli; la prima città d’Italia (Napoli) per numero di tipografie e giornali; le più importanti miniere di zolfo e saline d’Europa; le prime cattedre universitarie di Economia, Astrologia, Psichiatria, Architettura e Ostetricia; la prima banca (il Banco di Napoli) nella raccolta di denaro pubblico; la miglior finanza pubblica tra tutti gli stati preunitari; il minor numero di tasse (cinque); il minor carico erariale di tutta Europa; il Primo Codice Marittimo e Militare al mondo; il maggior numero di Università d’Italia; il primo osservatorio sismologico al mondo; il primo teatro lirico al mondo, il San Carlo (1737); la musica e le canzoni di maggior successo al mondo; il primo cimitero per poveri e per classi sociali. Inoltre, il Regno delle Due Sicilie è stata la prima nazione ad introdurre il sistema pensionistico, ad emanare una legge sugli “usi civili” e ad istituire il Corpo dei Pompieri. E si potrebbe continuare…
Eravamo grandi. E tali siamo rimasti. Questo spiega l’accanimento contro la tribù di Napoli e di tutto il Sud. È l’Italia che ha un basso profilo, è l’Italietta di sempre. Fratelli d’Italia è diventato Sorelle d’Italia per la lenta e stucchevole pubblicità di Calzedonia e il Nabucco è la colonna sonora dell’usura bancaria che va dalla Banca Romana a Mani Pulite, ai furbetti del quartierino, alle case chiuse del Potere. Che Banca, che Italia!

Pietro Golia

A Venosa, come in gran parte del Sud, si respira la grande Storia, la cultura, il grande Sogno Politico. Una iscrizione sulla porta principale della città esaltava l’antichità e la nobiltà di Venosa, “città cara a Bacco e ad Apollo, patria di Orazio, nutrice delle Muse, delle Leggi e della Medicina, vittoriosa in guerra, terrore dei nemici”.
Torri e castelli, il mercato cerealicolo, il Tesoro del Regno rimandano all’impronta nel nostro immaginario, alla memoria e alla identità che vibra e cammina con noi, a Federico II di Svevia, Stupor mundi, puer Apuliae, innamorato di Napoli e di Palermo.
Federico II nacque a Iesi il 26 novembre 1194 sotto una tenda innalzata nella piazza. Così aveva deciso sua madre Costanza d’Altavilla, figlia di Ruggero il Normanno, Re di Sicilia, moglie dell’imperatore Enrico VI di Hohenstaufen. Con questi antecedenti, Federico non si poteva sottrarre al suo destino. Infatti, ricostituì l’Impero, costruì il primo Stato centralizzato, imbrigliò le ambizioni temporali della Chiesa e ammaliò il mondo per la naturalezza con cui compì quest’opera immane. Per le genti del Meridione d’Italia, Federico fu anche più di tutto questo: a Napoli fece costruire la prima Università imperiale, diede impulso alla Scuola medica di Salerno, da Melfi promulgò le Costituzioni che diedero l’ossatura al suo Stato; su una collina della Capitanata in Puglia, fece edificare, fra tanti altri, il celebre Castel del Monte, che egli stesso aveva progettato, si dice insieme al Sole.
Non fu solo un uomo politico, Federico, ma guerriero, architetto e letterato: esempio ineguagliabile di uomo integrale. Occorre ricordare che la Corte dell’Imperatore si sposta sul Mediterraneo e che nel 1229 estende la sua autorità effettiva su Gerusalemme e altri luoghi della Palestina. L’Impero federiciano sembra dunque recuperare, anche se in una misura poco più che simbolica, quella dimensione mediterranea ed euroasiatica che caratterizzò le grandi sintesi imperiali a partire dall’epoca di Alessandro Magno (al quale Federico II venne paragonato dai Musulmani).
L’imperatore fu un araldo di un’epoca di pace e di convivenza, mediatore fra culture e fedi religiose diverse, interprete di una realtà che aveva il suo centro nel Mediterraneo, il cui versante imperiale presentava un quadro di differenze molto più profonde di quelle che caratterizzavano il panorama germanico. Federico II fu un grande imperatore, rappresentò l’idea imperiale che sa riconoscere le identità, le tradizioni, le religioni e le lingue: una memoria esemplare e un monito per il futuro.

Pietro Golia